Direttiva sul dovere di diligenza nelle catene del valore delle imprese (cepAnalisi della COM(2022)71)

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Buone le intenzioni, ma meno la realizzazione: l'Unione Europea vuole obbligare le aziende a concorrere per la protezione dei diritti umani e l'ambiente nell'UE e nei Paesi terzi, dalle materie prime ai prodotti e al loro smaltimento, quindi lungo l'intera catena del valore. Il think tank Centres for European Policy Network (CEP), critica la proposta di direttiva della Commissione ritenendola eccessivamente vaga.

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"L'intenzione è meritevole. Molte aziende negano la loro responsabilità nei confronti dei diritti umani e dell'ambiente. Eppure esse sono di grande rilevanza a causa delle loro catene di approvvigionamento transfrontaliere", afferma il giurista del CEP, Lukas Harta, che ha esaminato la direttiva prevista insieme all'economista del CEP, Matthias Kullas. Infatti, i valori sostenuti dall'UE dovrebbero essere applicati anche all'economia. Tuttavia, i ricercatori del CEP criticano l’attuale proposta in quanto troppo “nociva” per le imprese e anche a causa delle numerose imprecisioni ancora in essa contenute.

"L'UE basa la sua definizione di diritti umani su ben 19 convenzioni e dichiarazioni di diritto internazionale, alle quali spesso nemmeno gli Stati considerati più democratici si sono vincolati. In questo modo, Bruxelles mina l'obiettivo di ottenere un effetto di efficace definizione degli standard per catene di approvvigionamento altamente diversificate", spiega Harta. Anche il contenuto delle convenzioni e delle dichiarazioni necessita spesso di ulteriori chiarimenti. Ad esempio, non esiste una definizione uniforme di "condizioni di lavoro giuste ed eque".

Secondo Kullas, la direttiva risulta spesso troppo indefinita. L'accumulo di termini giuridici vaghi crea ambiguità, non certezza giuridica. Ad esempio, si suppone che la legge si applichi ai "rapporti d’affari consolidati", senza che sia sufficientemente spiegato cosa si intenda per "consolidati". Inoltre, essa creerebbe un onere amministrativo sproporzionato, soprattutto per le medie imprese, se dovessero essere tenute a monitorare i partner commerciali e garantire da parte loro il rispetto dei diritti umani e della protezione ambientale sulla base di definizioni eccessivamente indefinite.

Ora anche il governo tedesco sta cercando di indebolire il progetto di legge in punti cruciali. Soprattutto, la cosiddetta regola del “Safe Harbor (porto sicuro)” richiesta recentemente da Berlino potrebbe portare a stime e certificati di compiacenza, trasformando così la legge in una "tigre di carta".